mercoledì 20 febbraio 2008

Indelebile Mancio. Nel bene e nel male

Quindici anni. Dall’82 al ’97. Cinquecentosessantasei presenze totali, centosettantuno reti. Uno Scudetto, una Coppa delle Coppe, quattro Coppe Italia, una Supercoppa Italiana. Freddi numeri, gelide statistiche. Il lungo racconto che Roberto Mancini e la Sampdoria hanno scritto insieme è anche questo. Ma non solo. Anzi. È ancora oggi sentimenti, opinioni, pareri contrastanti. È ancora oggi amore e odio, adorazione e rancore nei confronti di una bandiera che se n’è andata, che può anche aver tradito, ma che resta pur sempre un calciatore - in ogni caso mai dimenticato - che ha fatto la storia di questa società.

Quindici anni, dicevamo. Tre lustri da protagonista all’ombra di una Lanterna blucerchiata che - come spesso è accaduto con numerosi dei “suoi” più celebri figli - lo ha visto crescere, maturare, diventare marito e padre e poi, non senza polemiche e rimpianti, partire, emigrare alla volta di altri lidi. Genova lo accolse entusiasta ragazzino, non ancora diciottenne enfant prodige ex bolognese, in un caldo, afoso pomeriggio di sole di fine luglio ’82, accompagnato dai genitori nella sede di Via XX per la presentazione ufficiale in maglia blucerchiata. Per indossarla, la prima volta, lo aiutò mamma Marianna. In seguito, col tempo, per il “centravanti che parte da lontano” - come si definì egli stesso il giorno dell’arrivo alla corte di Paolo Mantovani - vestire quella maglia si fece un gesto automatico, naturalissimo tanto che il blu, il bianco, il rosso, il nero con la croce di San Giorgio divennero la sua seconda pelle.

Quella maglia, tra gioie e dolori, soddisfazioni e delusioni, la indossò per quindici anni in giro per l’Italia, per l’Europa e per il mondo. E poco importava se forse, - anzi, no - certamente, proprio a causa di quella maglia, orgogliosamente differente da quelle bicolori a strisce verticali, non sedusse la critica, non sfondò in Nazionale, non divenne il più grande di tutti. Ma che differenza faceva? Alla Samp era il più grande di tutti. Era idolo incontrastato, leader, capitano. Ufficialmente fino al ’97. Esattamente il primo giugno. A Marassi Sampdoria-Fiorentina, ultima giornata di campionato. Il Doria tornava in Europa dopo due stagioni; Roberto, per tutti Bobby-gol, con gli occhi lucidi salutava per l’ultima volta, sotto una pioggia battente, l’amata Gradinata Sud. Diceva addio ad uno stadio, ad una folla commossa, in lacrime come il cielo grigio che lo sovrastava, lanciando quelle maglie blucerchiate con stampati il suo nome, la fascia di capitano ed il numero 10. Poi venne la Lazio. Ma questa è un’altra storia.

Federico Berlingheri

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