giovedì 29 novembre 2007

Amarcord Renzaccio

Da quando si è insediato alla guida degli amaranto, la sua Reggina è ancora imbattuta. Con due preziosi pareggi contro Napoli e Fiorentina - comunque stretti ai calabresi - e una cruciale vittoria a spese del Genoa, Renzo Ulivieri, decano dei tecnici italiani con i suoi 67 anni alle porte, e maestro di Walter Mazzarri, si è riseduto alla grande su una panchina di massima serie dopo quattro stagioni d'astinenza, riassestando e rianimando una formazione data quasi per spacciata. Renzaccio da San Miniato, d'altronde, in tema di sostituzioni di colleghi esonerati non è quasi secondo a nessuno - lo batte soltanto Nedo Sonetti, più “giovane” di lui di soli 23 giorni, recordman con addirittura 13 “rimpiazzi” - e a subentrare in corsa pare particolarmente avvezzo. Lo fece già nell'Empoli, C2 '73-74, per la prima panchina assoluta da professionista; lo fece nel Parma portato in Champions nel 2001; lo fece soprattutto nella Sampdoria, Serie B '81-82, quando il presidente Paolo Mantovani (dalla Svizzera) e il suo plenipotenziario Claudio Nassi lo chiamarono dopo cinque giornate al posto di Riccomini. Il giovane e sostanzialmente inesperto Ulivieri, storico iscritto al Pci, reduce da un flop perugino, non si lasciò scappare l'occasione. E i risultati gli diedero ragione.

Era il Doria operaio della corsa di capitan Ferroni, delle geometrie di Nano Roselli e della quantità di Pat Sala, della generosità di Gianfranco Bellotto e del carisma di Sandro Scanziani, della vivacità di Garritano e della straordinaria potenza di Mazinga Guerrini, della tecnica discontinua di Nick Zanone e della piacevolissima conferma del baby Luca Pellegrini. Era il Doria che, sapientemente organizzato da quel toscanaccio alto, baffuto e un po' stempiato accovacciato in quella che oggi si chiama “area tecnica”, raggiunse la semifinale di Coppa Italia e riconquistò la Serie A al quinto tentativo, posizionandosi al secondo posto in classifica alle spalle del Verona e a pari-merito col Pisa.

Un Doria, quello del compagno Ulivieri, che si permise il lusso di recitare il ruolo di matricola terribile anche nel massimo campionato. Memorabile si rivelò infatti l'avvio di stagione 1982-83 con la Juve scudettata di Platini e dei freschi Campioni del Mondo, l'Inter di Hansi Müller e Altobelli e la Roma di Pruzzo e Falcão, futura vincitrice del titolo, regolate di misura da Ferroni e compagni. I compagni che Mantovani e il nuovo diesse Paolo Borea avevano aggiunto al gruppo della promozione erano sì di prim'ordine - il centravanti della nazionale inglese Trevor Francis, il regista irlandese neo-scudettato bianconero Liam Brady, l'astro nascente del pallone nostrano Roberto Mancini: campioni che a Marassi non si erano ammirati se non con maglie differenti - ma nessuno avrebbe attesa una partenza tanto fulminante. Va da sé che il prosieguo della stagione non poté mantenersi su quei livelli: l'inesperienza alla categoria (Mancini, Pellegrini), l'incostanza (Chiorri) e alcuni guai fisici (Francis su tutti, ma anche Rosi, Zanone e Vullo) non consentirono ai blucerchiati di entrare nelle piazze che contano ma permisero di conquistare un comunque onorevole settimo posto.

Fu così che Ulivieri si guadagnò la riconferma per un'altra stagione '83-84, l'ultima al Doria. L'ultima perché nonostante gli acquisti (Vierchowod, Pari, Bordon, Galia, Marocchino) ed un passivo di mercato di 3 miliardi e mezzo di lire, Mantovani, assolto dai guai giudiziari e di ritorno dall'esilio elvetico, non fu soddisfatto del sesto posto finale in coabitazione con Milan e Verona. Per volontà del presidente, le strade di Renzaccio e della Samp si separarono allora senza rancori. E le seguenti, ironiche ma sincere parole di Ulivieri (“Ho imparato molto da Paolo Mantovani: come gestire la squadra, i rapporti con l'ambiente e con i tifosi. Da un certo punto di vista avrei dovuto io... pagare lui”) non fecero altro che dimostrarlo appieno.

Federico Berlingheri
(Il Giornale, 29 novembre 2007)

domenica 25 novembre 2007

Knezevic-Tavano: la Samp si smarrisce a Livorno

Quella dell'Ardenza è la partita delle conferme. Il Livorno dimostra di aver assimilato la cura-Camolese e di essersi rimesso definitivamente nella carreggiata giusta per la salvezza; la Sampdoria - sempre sconfitta dopo essere andata in svantaggio - dà l'ennesima prova di immaturità e discontinuità. La sfida del “Picchi” è tutta qui, bella che finita dopo dieci minuti dal fischio d'inizio di Gervasoni e dopo le reti di Knezevic e Tavano. I centri nel finale di Bellucci e Tavano sono buoni solo per lo spettacolo e le statistiche.

Per il ruolo di partner offensivo del piccoletto di Caserta, il mister torinese rispolvera Tristan, Bogdani va in panchina, Rossini in tribuna. Non convocati Antonio Filippini e Vidigal, nella linea mediana a cinque torna Pulzetti mentre Knezevic è preferito a Pavan al centro della difesa. Nella sua Livorno, Mazzarri si ritrova a fare i conti con le reiterate mancanze di Accardi, Delvecchio e Cassano (tutti e tre comunque in ripresa) alle quali, in settimana, s'è aggiunta quella di Montella, operato ieri al menisco. A sostituirlo in avanti c'è Caracciolo, supportato da Bellucci e Sammarco. Sulla sinistra fiducia a Ziegler, Pieri s'accomoda in panca col rientrante Palombo, ristabilitosi dal principio di polmonite.

Parte forte il Doria, con Caracciolo: nei primi quattro giri d'orologio, l'Airone si traveste da assist-man ma, al termine di due buoni spunti personali, gli inserimenti di Sammarco non riescono ad incidere. Al 5' si fa vedere Tristan, Castellazzi blocca a terra. Non può nulla invece il numero 1 oggi verdecerchiato su Knezevic al 9', quando il centrale fiumano ripete la prodezza di due settimane fa a Siena staccando più in alto di tutti su un pregevole traversone mancino di Pasquale. 1-0, Livorno subito in vantaggio. Neanche il tempo di riassestarsi e, un minuto dopo, i labronici raddoppiano: Lucchini stende Balleri (giallo per il doriano), punizione, De Vezze rasoterra centra in mezzo all'area per Tavano che incrocia e segna un gran gol. L'uno-due stende i genovesi: gli ospiti sono in bambola, non si destano e non reagiscono, e Castellazzi, al 17', deve addirittura evitare il 3-0 mandando in corner un preciso calcio piazzato di un rivitalizzato Tristan. Oltre al bomber andaluso, la sosta sembra aver rivitalizzato il Livorno intero: quando si distendono, gli uomini di Camolese sanno sempre creare apprensioni alla retroguardia di Mazzarri. Non ci sono varchi, invece, per la Samp. Volpi non ingrana, le maglie amaranto sembrano il doppio di quelle biancocerchiate; i cross dalla trequarti non sortiscono alcun effetto. Sulle fasce doriane si fatica assai: sulla destra Pasquale costringe Maggio sulla difensiva; sull'altra sponda Ziegler palesa limiti enormi.

Nella ripresa, è proprio il giovane svizzero a venire sostituito per primo: al 53' viene richiamato per Pieri. Nonostante la maggior vivacità dell'esterno grossetano, la solfa non cambia. I padroni di casa dominano soprattutto in tema di condizione fisica e freschezza atletica (vedere per credere la rapidità di Pulzetti). L'asse Tristan-Tavano mette i brividi a Castellazzi al 55' e al 60' mentre Bellucci e Caracciolo latitano dalle parti di Amelia. Stante l'apatia biancocerchiata, Mazzarri allora tenta il tutto per tutto e prova il tridente puro con l'inserimento di Bonazzoli in luogo di Sammarco. Il Doria “attacca” - si fa per dire - con più convinzione, Camolese si cautela quindi con l'ingresso di Pavan per Bergvold e concede la prima standing ovation italiana a Diego Tristan, fuori per Bogdani. Da standing-ovation anche il 2-1 di Bellucci, mezza rovesciata sensazionale su cross di un Bonazzoli tirato a lucido, miglior doriano in campo. Siamo al minuto 79, partita - un po' a sorpresa - riaperta. E ora la Samp ci crede: dentro Kalu per un impalpabile Caracciolo. Ma non c'è niente da fare perché ancora Ciccio Tavano, a due minuti dal 90', in contropiede fa il 3-1 e chiude i giochi. Definitivamente.

Federico Berlingheri

Tabellino

Livorno-Sampdoria 3-1

Reti: 9' Knezevic, 10' Tavano, 79' Bellucci, 88' Tavano

Livorno (3-5-2): Amelia 5,5; Grandoni 6, Knezevic 6,5, Galante 6,5; Balleri 6,5, Pulzetti 7, Bergvold 6,5 (69' Pavan s.v.), De Vezze 6,5, Pasquale 6,5; Tavano 7,5 (91' E. Filippini s.v.), Tristan 7 (69' Bogdani s.v.). All. Camolese 7

Sampdoria (3-4-2-1): Castellazzi 6,5; Campagnaro 5,5, Sala 5,5, Lucchini 5; Maggio 6, Volpi 5, Franceschini 5, Ziegler 4,5 (53' Pieri 6); Sammarco 5 (61' Bonazzoli 6,5), Bellucci 6; Caracciolo 5 (83' Kalu s.v.). All. Mazzarri 5,5

Arbitro: Gervasoni di Mantova 6

Ammoniti: Lucchini, Amelia, Campagnaro, Volpi, Tavano


(Goal.com, 25 novembre 2007)

sabato 24 novembre 2007

David Balleri, quelle lacrime sul viso

Di lui sono rimaste le lacrime - sincere - versate sui rimpianti di San Siro, di un triste e malinconico pomeriggio d'inizio maggio. Milan-Sampdoria, quartultima giornata del campionato '98-99, finì 3-2 con un'autorete di Castellini su tiro di Ganz al quinto ed ultimo minuto di recupero. Qualche istante prima, il trottolino brasiliano Cate, a tu per tu con Abbiati, anziché servire Iacopino liberissimo al centro dell'area, aveva optato per calciare addosso al portiere rossonero il pallone del possibile, incredibile 2-3. Avrebbe potuto essere il gol vittoria, lo slancio decisivo verso la salvezza doriana e l'addio ai sogni tricolore milanisti. Non lo fu. E, al termine di quell'incontro, David Balleri pianse. Pianse a dirotto proprio per questo, perché si rese conto che, a quel punto, soltanto un miracolo avrebbe potuto evitare la retrocessione alla - pur forte - formazione di Luciano Spalletti. Quel pianto a dirotto, ancor più intenso, si replicò al “Dall'Ara” di Bologna, luogo in cui, due settimane più tardi, il miracolo venne ufficialmente polverizzato dalle dissennate decisioni di un certo signor Alfredo Trentalange di Torino.

A quel punto, Balleri - che non rientrava nei piani del nuovo tecnico Ventura - se ne andò in punta di piedi, al Lecce, così come era arrivato a Genova nell'estate del '95. La Sampdoria lo acquistò, insieme con Marco Franceschetti e Pippo Maniero, dal Padova più amato di sempre dai sostenitori blucerchiati, quello che sconfisse ai rigori i cugini rossoblù nel drammatico spareggio-salvezza sotto l'acquazzone del “Franchi” di Firenze.

Livornese d.o.c., classe 1969, il terzino ex patavino si conquistò fin da subito la stima e la fiducia di tutti. In primis quella di mister Eriksson, che fin dal primo giorno di ritiro a Vigo di Fassa gli affidò senza remore le chiavi della fascia destra, della quale divenne titolare, indiscutibilmente inamovibile. Dopo il perdente di successo di Torsby, guidarono il Doria el Flaco Menotti, Vujadin Boskov, Spalletti, Platt e ancora Spalletti. Nessuno di loro, nelle quattro stagioni di David in blucerchiato, cambiò opinione sul suo ruolo. Atleta serio, stantuffo inesauribile, corridore generoso, il toscanaccio faceva del carattere e dell'agonismo le sue armi migliori. Tra queste, non figuravano di certo i cross, i traversoni dal fondo, il più delle volte finiti nella Sud a far felice il fortunato accalappiatore di palloni di turno. Anche per questo, forse, era ben visto e ben voluto. Era grintoso, determinato, il Balleri doriano. Spontaneo, genuino, irruento. Fin troppo. E, pur maturando, non è mai cambiato. Si spiegano così le dieci espulsioni e gli 82 cartellini gialli rimediati fin qui in Serie A, in una carriera lunga oltre 500 partite da professionista, 328 delle quali proprio in massima serie. Carriera che, a 38 anni suonati - e a fine marzo saranno 39 -, David Balleri non ha la minima intenzione di piantar lì.

Federico Berlingheri
(Goal.com, 24 novembre 2007)

mercoledì 21 novembre 2007

Ex in trincea: Grandoni e Pavan

Due discreti difensori, rognosi al punto giusto, puliti e senza fronzoli. Due discrete carriere, altalenanti tra A e B, quasi sempre da protagonisti. Compagni di squadra e di reparto per qualche mese a Modena (2003-04) e dalla scorsa stagione a Livorno, Alessandro Grandoni e Simone Pavan hanno rischiato di trovarsi insieme anche in blucerchiato. Questione di qualche mese, nel 2004.

Ingaggiato dal presidente Enrico Mantovani agli albori dell'estate del '98, poco più che ventenne ma già veterano delle rappresentative giovanili azzurre, Grandoni sbarcò dalla sponda laziale del Tevere, dopo tre anni di apprendistato alle soglie della prima squadra biancoceleste. Già a partire da quel nefasto torneo che si rivelò l'Intertoto, Luciano Spalletti ne fece presto un pilastro della sua sfortunata formazione. A fine campionato, il bilancio personale del precoce centrale ternano - 31 presenze alla prima stagione in massima serie da titolare - risultò senza dubbio positivo, agli antipodi, però, con quello del Doria, retrocesso in cadetteria dopo diciassette anni. L'annata seguente, fin dal ritiro di Cavalese, la convivenza con il neo-tecnico Giampiero Ventura non fu delle più serene: Ale, pur essendo il capitano dell'Under 21 che si sarebbe di lì a poco laureata campione d'Europa, non aveva le prerogative per rivestire i panni del regista difensivo tanto caro al mister di Cornigliano. Il centrale fu così relegato ai margini della rosa a vantaggio del redivivo Ficini e, a gennaio, dopo settimane a far ragnatele in panca, partì in prestito alla volta della Serie A e della Torino granata, dove - giocando - dimostrò di meritare un ruolo di primo piano. Saltato e salutato Ventura, Grandoni tornò alla Samp e, con Gigi Cagni, Gianfranco Bellotto e Walter Novellino ebbe ciò che gli spettava: un posto fisso nell'undici titolare. In tre campionati cadetti al fianco del rosso Mirko Conte, un quinto posto precedette una salvezza a dir poco sofferta ed un'esaltante promozione in carrozza. Poi però, col ritorno in A, qualcosa si ruppe di nuovo e dopo ben 173 presenze totali, Grandoni salutò la Sampdoria, finendo prima in prestito al Modena ed infine a Livorno, a titolo definitivo, ai primi di luglio del 2004.

Proprio in quel periodo faceva la sua conoscenza con l'ambiente blucerchiato Simone Pavan, appena svincolatosi dalla società canarina. Anch'egli difensore centrale, cresciuto nell'Atalanta, un passato da bandiera del Venezia zampariniano, il bel trentenne di Latisana, partito alle spalle della coppia di titolarissimi Castellini-Falcone, scalzò la concorrenza dell'emergente Carrozzieri e finì per eguagliare il proprio record di gettoni in massima serie (27), stupendo - per rendimento, agonismo e caparbietà - chi l'aveva accolto con diffidenza. Pavan si guadagnò così il rinnovo per un'altra stagione ma, vuoi per il nefasto andamento di tutta la truppa di Novellino, vuoi per la nuova staffetta con l'altro comprimario Gigi Sala, il 2005-06 non si confermò altrettanto brillante. Da ricordare soltanto un gol - il primo e unico in maglia doriana - in Coppa Italia al Cagliari, un gol utile alla qualificazione ai quarti, che non valse però un contratto per l'anno successivo.

Federico Berlingheri
(Il Giornale, 21 novembre 2007)

Panucci, il campione torna a casa

Marassi, casa dolce casa. Per un giramondo del pallone nato a Savona, svezzato all'ombra della Lanterna genoana, divenuto campione nella Milano rossonera, confermatosi tale nella Madrid merengue, tornato a Milano (stavolta nerazzurra), e passato per Londra (sponda Chelsea) e nel Principato di Monaco prima di rinascere, in giallorosso, a Roma, un simile incipit parrebbe quasi un controsenso, una formula iniziale quantomeno inopportuna. E invece no. Non per Christian Panucci, il fresco eroe azzurro di “Hampden Park”: uno che avrà ormai trentaquattro primavere sul groppone, un carisma da veterano e un caratterino mica da ridere, uno che avrà pure viaggiato per l'Europa e vinto praticamente tutto; uno che di strada ne ha fatta parecchia, ma che, ciononostante, resta pur sempre il pivellino spavaldo dall'animo intriso di rossoblù dei primi anni Novanta, quello a cui, quando si parla di Genoa, brillano ancora le pupille. Un po' come quel ragazzo nato in Via Gluck, l'eclettico terzino romanista la sua prima casa non se l'è mai scordata e sabato sera vi rimetterà piede dopo quasi tredici anni di lontananza.

A dire il vero, l'ultima di Christian al “Ferraris” risale a poco più di un mese fa: indosso aveva la maglia della Nazionale, l'occasione Italia-Georgia e il cinquantesimo gettone tricolore. La penultima poi, esattamente un anno orsono, contro i cugini del Doria, era pure riuscito a segnare. Ma sabato sarà diverso, sarà tutta un'altra cosa: con lo stadio di rosso e di blu vestito, sotto la tonante Gradinata Nord, davanti a quello che - anche se per poco - fu il suo pubblico.

Già perché, ahiloro, gli appassionati del Vecchio Balordo quel difensore savonese rapido e determinato, puntuale negli anticipi ma anche in zona gol, si dovettero fin troppo presto abituare a vederlo con divise differenti da quella a quarti rossoblù. L'esordiente Panucci visse infatti soltanto una stagione nella prima squadra del presidente Spinelli, il quale, nel '90, lo aveva scovato a Savona per aggregarlo alla Primavera. Ci pensò Osvaldo Bagnoli, il 24 maggio '92, a far debuttare El grinta - soprannome affibbiatogli a posteriori nella Capitale - al “San Paolo” di Napoli; continuò Bruno Giorgi a dargli fiducia da centrale - libero-stopper recita la sua prima figurina sull'album Panini stagione '92-93 -; fu il subentrato Gigi Maifredi a dirottarlo sulla fascia destra e Claudio Maselli - terzo mister stagionale - a corroborare l'intuizione del suo predecessore. Intuizione che si rivelò assai felice: il ventenne neo-terzino, a fine anno, mise insieme la bellezza di 34 presenze e 4 reti tra Serie A e Coppa Italia, conquistando, col compianto compagno Andrea Fortunato, la ribalta nazionale in qualità di baby-emergente e attirandosi le lusinghe dei grandi club metropolitani.

Tra amarezza e mugugni generali, Spinelli finì per cedere: Fortunato andò alla Juve; Panucci al Milan stellare di Berlusconi e Capello, trampolino di lancio di una carriera da globe-trotter pigliatutto, carriera da campione - sabato scorso in terra scozzese la prova inconfutabile - tuttora a livelli eccelsi. Carriera che - se n'è parlato, se ne riparlerà - potrebbe concludersi proprio come era cominciata tanti anni fa, tinta di quel rossoblù che gli fa ancora brillare le pupille.

Federico Berlingheri
(Il Giornale, 21 novembre 2007)

venerdì 9 novembre 2007

Borriello intervistato in esclusiva su Calcio2000

Fino a qualche mese fa, in pochi avrebbero puntato qualche euro sulla sua rinascita calcistica. Oggi, Marco Borriello è divenuto l'uomo copertina del Genoa e un nome papabile per la Nazionale azzurra. Il mensile Calcio2000 ha intervistato in esclusiva il centravanti napoletano e sul numero 120, in edicola a partire dal 15 novembre, gli dedicherà ampio spazio, sintomo, questo, del rinnovato interesse dei media nazionali per il Grifone.

Federico Berlingheri

mercoledì 7 novembre 2007

Tosto e Cozza, il fallimento genovese di due compaesani

Errare humanum est sostenevano a ragione i Romani. Se nella vita - si sa - errare è quasi all'ordine del giorno e non pare impresa ardua farsi perdonare, nel calcio il margine di fallimento è forse ancora più ampio e più complicato risulta risollevarsi proprio dove si ha riscosso scarso successo. Sbagliare una stagione, incappare in un'annata-no e deludere, disattendere ogni aspettativa e venire bollato come “bidone”. Ne sanno qualcosa Vittorio Tosto da Marina di Cariati e Francesco Cozza da Cariati, due dei più grandi fiaschi della storia recente di Sampdoria e Genoa, due che, all'ombra della Lanterna, vissero i giorni peggiori delle proprie carriere. Nati a distanza di sei mesi - entrambi del '74: il primo di giugno, il secondo di gennaio - e di due minuti d'auto nella provincia cosentina affacciata sullo Ionio, sbarcarono rispettivamente in blucerchiato e rossoblù presentati in pompa magna ed accolti dagli onori della piazza, salvo poi ripartire mestamente qualche tempo dopo, alla volta di altri lidi.

Prelevato dalla Salernitana nell'estate del '99, l'allora venticinquenne Vittorio Tosto, professione terzino sinistro, venne presentato come uno degli esterni con mansioni difensive emergenti del panorama calcistico italico, fiore all'occhiello della campagna di rafforzamento dell'appena retrocessa formazione di Enrico Mantovani ed elemento di spicco di quello che sarebbe dovuto divenire il “nuovo ciclo” doriano targato Giampiero Ventura. Con indosso la maglia blucerchiata numero 5 però - nelle 23 partite tra campionato e Coppa Italia che l'alternanza con Pesaresi gli consentì di disputare - il mancino calabrese fu bocciato senza appello. Deluse, Tosto. Spento, scarico, quasi spaesato, assai poco incisivo e mai decisivo. Deluse la società, deluse i tifosi, deluse Ventura prima ed il suo attuale tecnico empolese Gigi Cagni poi, il quale, agli albori del 2000-01, già a partire dal ritiro valdostano di Aymaville, gli preferì il navigato Manighetti, lasciando Vittorio libero di emigrare verso Piacenza.

Libero di ricongiungersi, a Siena, con Gigi De Canio fu lasciato anche Francesco Ciccio Cozza nel gennaio del 2005. Il tecnico lucano, che fino all'agosto 2004 aveva guidato il Genoa, lo aveva fortemente voluto in rossoblù, sostenendo con calore la candidatura del rifinitore quale fulcro dei futuri schemi offensivi del Grifone, una corazzata costruita per la promozione. Il presidente Preziosi accontentò il suo mister: l'ormai trentenne “pupillo” Cozza fu acquisito dalla Reggina - di cui era bandiera e capitano - non certo per pochi spiccioli. Non fece i conti, il Joker, sull'esonero che di lì a poco avrebbe sorpreso lo stesso De Canio, all'indomani della sconfitta in Coppa Italia contro il Lumezzane. Cozza, la punta di diamante della campagna di rafforzamento del Grifone, si ritrovò infatti orfano del proprio mentore; e col successore Serse Cosmi la vita si rivelò assai dura. Oltre all'equivoco sulla collocazione tattica del fantasista calabrese, ci si mise di mezzo una serie illimitata di guai fisici: più che al “Pio”, Ciccio gravitava dalle parti del “Baluardo”. Inevitabile, dopo 5 misere e opache apparizioni, il divorzio consensuale.

Federico Berlingheri
(Il Giornale, 7 novembre 2007)